Voglio utilizzare le due parole chiave contenute nel titolo del mio intervento: Cultura e Senso, riferite all’attività di supervisione nella relazione d’aiuto.
Leggendo le varie definizioni di cultura sono rimasta colpita da una in particolare, quella tratteggiata dalla Treccani, che definisce cultura “l’insieme delle cognizioni intellettuali acquisite attraverso lo studio e l’esperienza, unite ad un profondo e personale ripensamento che converta queste nozioni in elementi costitutivi della propria personalità, nella consapevolezza di sé e del proprio mondo”. Il termine cultura si può declinare in molte sfumature, se penso alla supervisione professionale mi viene in mente un’accezione diversa, quella di cercare ciò che ancora non conosco, di riempire un vuoto di conoscenza, la immagino una parola declinata sul bisogno del professionista, consapevolmente incolto, di trovare risposte e sostegno.
Lo stato dell’arte della cultura della supervisione in Italia è ad un livello iniziale, la strutturazione di percorsi formativi è molto recente, l’offerta è abbastanza limitata, a differenza degli USA in cui, ad esempio, ci sono carriere strutturate per diventare supervisori all’interno di percorsi formalizzati a livello universitario.
Non voglio però addentrarmi in parallelismi impossibili dal punto di vista formale, come sappiamo e abbiamo sentito più volte, ci confrontiamo con una realtà molto diversa dal punto di vista dei parametri formativi. Voglio invece sottolineare un fattore comune, ovvero una tendenza rispetto alla quale il dibattito culturale sulla supervisione sembra trovare una sintesi e mi riferisco all’importanza di basarsi su fattori aspecifici che riguardano sostanzialmente il processo, la dinamica della relazione con il cliente, le risonanze personali. In questa prospettiva, i modelli di riferimento seppur importanti, da un punto di vista operativo e di contenuti, si pongono ad un livello subordinato.
L’obiettivo principale di questa impostazione è quello di aiutare il counselor a focalizzarsi sui punti di forza e di debolezza della relazione in atto, sui vissuti personali e tende a far emergere insight connessi al proprio mondo e a come questi incontrano in modo più o meno consapevole il mondo dei nostri clienti. In pratica si tende a promuovere una consapevolezza rispetto ad interventi inappropriati anche da un punto di vista etico, deontologico nonché relativamente al contratto. Voglio citare, oltre a questi aspetti, un elemento che per noi non può essere secondario, alla luce dello sviluppo e del dibattito sul counseling in Italia che è quello relativo ad un confronto sulla correttezza o meno della presa in carico di un determinato cliente e della presa in carico di una determinata richiesta di aiuto. Questo nella realtà italiana è un tema dirimente al momento, a prescindere che si concordi o meno da un punto di vista concettuale. Qui il terreno si fa più spinoso, perché se i nostri colleghi oltreoceano ci forniscono contributi legati a figure professionali che non portano domande “irrisolte”, noi qui questo tema dobbiamo porcelo, partendo, a mio modesto avviso, da un elemento chiave, ovvero dal fatto che non esiste una risposta standard e che la maturità del professionista e la capacità di leggere il contesto in cui una richiesta di aiuto viene esplicitata, sono di primaria importanza. Voglio a questo punto introdurre la parola SENSO citata in apertura. Il senso declinato non solo come la capacità di Sentire, ma anche a livello “morale” come capacità di discernere tra ciò che è opportuno e ciò che non lo è. A noi counselor questa capacità è richiesta in modo particolare ed è per questo che abbiamo bisogno di coltivarla e coltivarla vuol dire mettersi in gioco in una relazione altra (quella di supervisione) che porta con sé le caratteristiche dell’aiuto ma anche della guida e, in parte, contiene la direttività […] una parola, direttività, spesso malvista perché erroneamente connessa ad un possibile deficit di empatia.
Nella mia esperienza personale come professionista, la direttività unita all’esperienza in un setting di supervisione è stato un valore aggiunto, che consiglierei a tutti i colleghi di accogliere e preservare. Nel testo “training and supervision for counseling in action”, vengono esaminati i punti fondanti nella relazione tra supervisionato e supervisore e le emozioni connesse a questa relazione. Dalle varie testimonianze dei supervisionati emerge in modo centrale l’ansia e la paura del giudizio. I counselor riportano sostanzialmente che pur essendo consapevoli di trovarsi in una relazione non giudicante, vivono come primo approccio, a livello emotivo, la paura. Mi ha colpito, particolarmente, il fatto che a parlare di questo fossero proprio i counselor più navigati, con maggiore esperienza e “anzianità” di servizio. A dimostrazione del fatto che la necessità di supervisione non conosce età e/o esperienza ma che rappresenta ad ogni livello lo strumento essenziale della nostra professione. Nella supervisione di gruppo questi elementi si amplificano, la relazione è più ampia, non ci sono solo io con il mio supervisore a mostrare la mia consapevole incompetenza, ma sono coinvolti anche altri professionisti e l’immaginario legato al giudizio e le resistenze all’autosvelamento si amplificano. Ma se andiamo a riprendere la parola cultura, credo che proprio nel gruppo il suo potenziale si esprima ad un livello più alto, nessuno di noi può sentirsi al riparo dall’errore e, paradossalmente, neanche dal successo. La domanda o il dubbio portato in supervisione diventa una domanda collettiva, sollecita il desiderio di sostegno e le risposte che emergono sono parte integrante del processo che ci vede impegnati nella costruzione della nostra identità, parlo della co-costruione di una esperienza che è individuale e collettiva. Nella ricerca del senso, nella sua accezione più ampia concorriamo tutti, ogni giorno, nei nostri studi, nella ricerca, nell’esperienza dell’incontro, nel desiderio di non fermarci e di continuare a riempire di significati le parole che ci definiscono, consapevoli del fatto che la cultura, per sua definizione e complessità, non è statica e che ha bisogno della nostra energia. Siamo tutti supervisionati perché non c’è un limite alla nostra evoluzione e i supervisori hanno il ruolo di sostenere e agevolare questo processo.
Voglio spendere due parole sui supervisori e sull’importanza di unire competenza ed esperienza per ricoprire questo ruolo, che non può essere attribuito di default solo perché si è iscritti ad una associazione di categoria da un certo numero di anni, ad esempio come formatore, allora si suppone che quel determinato professionista abbia anche le competenze per fare supervisione. Sono sempre stata convinta che la crescita vera, sia personale che professionale passi attraverso una congruenza tra ruolo e sostanza e aspirare ad avere un ruolo quando la sostanza è ancora acerba è un passo indietro per il professionista che cede a questa vanità e per l’intera comunità di appartenenza. Soprattutto perché la supervisione è un elemento costitutivo nella definizione della cultura del counseling. La nostra responsabilità come professionisti, non dovrebbe più essere pensata solo in termini di ricaduta individuale, se vogliamo fare un salto consistente in questo processo di cui siamo attori dovremmo cominciare a pensare in termini di identità collettiva. Questo si traduce in una pratica molto semplice, ognuno fa la sua parte al meglio, senza mai smettere di crescere ricoprendo ruoli diversi quando il tempo è maturo.
E’ sul terreno della passione che le parole cultura e senso si incontrano, il motore che ci ha portato qui oggi e che è energia pura che si radica nel cuore e nella mente, credo profondamente che solo dall’incontro di queste due dimensioni possa nascere l’azione consapevole e il desiderio di continuare ad essere esploratori dell’evoluzione umana.
Buon lavoro a tutti noi!
Last modified: 10 Settembre 2020